Intervista a Ollie Dabbous. Il modern British romantico a Londra

12 Feb 2015, 10:21 | a cura di
Nella Londra nevrotica e sempre in corsa c'è un angolo di quiete nell'area di Tottenham Court Road. Qui di fronte a un negozio di giocattoli antichi, immerso in un'atmosfera rarefatta, con un bel bar nel sotterraneo, c'è il ristorante di Ollie Dabbous.

Sapori netti e decisi. Nessun manifestoideologico. La cura per l’estetica, ma sempre al servizio del gusto e della piacevolezza. La leggerezza, unita a un’idea precisa e personale di cucina moderna, e quell’idea “botturiana” di avere i piedi ben piantati sul territorio e la testa in volo. Sono gli elementi che concorrono a rendere Ollie Dabbous uno degli chef del momento. E non solo in Inghilterra. Eppure in Italia sembra che in pochi, pochissimi, si siano accorti di lui.

Alain Ducasse, durante Identità Golose 2015 appena conclusosi a Milano, afferma che “la sintesi del gusto è un piatto che rispetta l’identità della sua natura e compito del cuoco è estrarre da ogni materia prima l’essenza del suo sapore creando un’armonia di contenuti che renda il piatto essenziale e nobile”. Ecco, questo vestito di parole, sembra cucito a pennello per Ollie Dabbous.

Lo abbiamo incontrato nel suo ristorante omonimo di Londra, fermata metro Goodge Street, a due passi da quella affollatissima area che è Tottenham Court Road. Qui però siamo in un piccola isola pacifica, uno di quegli angoli che ancora affascinano di Londra; proprio di fronte al ristorante c’è uno storico negozio di giocattoli antichi di latta e in legno e un’atmosfera pacata, quasi una Londra d’altri tempi. Eppure a pochi passi c’è un flusso costante di gente che consuma i marciapiedi, dalle prime ore del mattino per popolare gli uffici sino a notte fonda quando i ristoranti, wine bar e pub sono stracolmi. Proprio qui, a un passo dal ristorante che porta il suo nome, Dabbous ha un secondo indirizzo più casual, ilBarnyard, unprêt-à-porter gastronomico d'autore.

Il locale è bello, un look post industriale minimale ed elegante. Nonostante il prevalente color ruggine, il metallo grigio scuso, l’atmosfera è calda e accogliente.

Ollie, la tua fama è in continua crescita, ma in Italia è difficile reperire informazioni su di te. So però che hai lavorato nel nostro Paese da giovane. Cosa conservi di quella esperienza?
Sì, è vero, alla Trattoria Camilla di Firenze. Quali memorie conservo? Avevo 15 anni e per la prima volta ho fatto parte di una vera brigata. Ricordo che mi colpì la freschezza degli ingredienti, tutti genuini e comprati al mercato. Nulla qui è così buono come quello che potevi trovare lì, parlo di soprattutto di verdure e ingredienti semplici, quelli che fanno la differenza. È stata un’esperienza formativa, coinvolgente e divertente. E poi la città è splendida, anche se a 15 anni non mi soffermavo ad apprezzare le bellezze artistiche o culturali del luogo.

Se dovessi introdurre il tuo stile di cucina ad un italiano, cosa diresti?
Direi che scelgo i migliori ingredienti di stagione e cerco di trattarli al meglio, rispettandone la natura. Ad esempio, della pesca cercherò di esaltare la succosità, nel caso della fragola la fragranza, per i molluschi la texture. Cerco di cucinare gli ingredienti nel modo migliore per estrarre la loro pura e naturale bontà, creando dei piatti a volte complessi negli accostamenti - altre volte volutamente basici - ma paradossalmente semplici nei singoli sapori.

Ti piace lo stile di cuochi che invece lavorano molto sulla materia arrivando a trasformarne gusto e consistenza? Penso allo stile molecolare di un Ferran Adrià.
Diciamo che qui facciamo qualcosa di diverso. Cerchiamo di arrivare a un risultato analogo, ma percorrendo una strada diversa. Però non amo parlare di altri chef. Lui è sicuramente più tecnico, forse troppo per i miei gusti e parlo da chef. Io sono attentissimo ai dettagli, senza dubbio, ma la tecnologia troppo spinta non fa per me tra i fornelli di una cucina.

Come si riflette l’Inghilterra nei tuoi piatti?
La cucina tradizionale inglese è famosa per essere pesante, rustica. Io, anche quando utilizzo ingredienti tipici della tradizione inglese, voglio rendere i piatti più leggeri e delicati. Come dicevo, cerco di usare ingredienti locali, ma non vedo niente di male nel ricercare anche prodotti a volte migliori, a volte semplicemente diversi e non necessariamente “local”. Quello cui miro io è il gusto che voglio far arrivare al cliente. Se volessi collocare la mia cucina nel contesto inglese, la definirei “modern british” con qualche tocco romantico. Penso alle classiche mashed potatoes, alla torta di coniglio, piatti classici e tradizionali, elevati da un tocco leggero, pulito ed elegante. Non ho la pretesa e la volontà di reinventare nulla o di destrutturare, bensì di cucinare nella miglior maniera possibile quell’ingrediente specifico o quella ricetta. Ed è bello sorprendere gli ospiti con piatti della tradizione, che loro pensano di conoscere e che invece poi scoprono in una veste nuova, diversa, inusuale.

Possiamo accostare, in parte, il tuo stile a quello della Nuova Cucina Nordica?
Sì, forse, ma meno direi che la mia è meno idealista. Loro sono un po’ estremi, io voglio essere meno politico, non seguo un manifesto. Vorrei solo avere i clienti felici, buona musica nel locale, un design che mi rappresenti e, ovviamente sopra ogni cosa, una cucina di livello. Non voglio raccontare storie con i miei piatti, voglio far gustare sapori ed emozionare. Tornando alla Nordic Cuisine, ho fatto uno stage di qualche settimana lì e ho imparato moltissimo. Però per me il cibo non è solo “local”, io cerco il meglio, ovunque esso sia.

Hai un maestro?
Il mio è Raymond Blanc, nel cui ristorante ho avuto il primo vero lavoro full time in una cucina e ho lavorato con lui ben quattro anni. Ero un bambino e mi ha trasformato in cuoco. Lì ho imparato quanto poco sapessi di cucina. Il suo stile è molto diverso da ciò che faccio ora, ma ora ho un mio stile proprio perché da lui ho imparato le basi ed è a lui che devo tutto in questo settore.

Qual è il tuo comfort food?
Bella domanda, divertente! A me piace molto lo yoga dopo il servizio, ma capisco che quello non è cibo… Allora diciamo che tutta la cucina di casa è apprezzata dato che non ho mai tempo di godermela. E Poi ci sono i waffles, i sunday waffles. Quelli li adoro…

Molti chef sono soliti andare in persona al mercato per fare la spesa. Anche tu fai lo stesso?
È un’idea romantica, sicuramente alcuni chef lo fanno, ma io non potrei. Lavoro qui dalle 7 del mattino per fare il pane e per i prodotti ho dei fornitori fidati con cui ho costruito, negli anni, un sano rapporto di fiducia. Andare al mercato mi farebbe perdere molto tempo. Pensa che abbiamo anche persone che coltivano appositamente per noi pomodori e piselli, ad esempio. Ordino tutto per circa 6 mesi, è il vantaggio di avere un menu fisso, così so già che venderò quel numero di porzioni per ogni singolo piatto.

La popolarità del tuo ristorante è esplosa dopo aver ricevuto recensioni strabilianti su testate nazionali importanti. Cosa pensi della critica oggi, TripAdvisor&Co?
Penso ancora che la critica professionale abbia un ruolo importante. C’è molta differenza tra essere un esperto e avere una propria, pur legittima, opinione. Ho profondo rispetto dei grandi critici, ti possono sempre aiutare con un giusto giudizio, anche negativo. È pericoloso poter dire tutto senza pagarne le conseguenze, si può influenzare un business. Personalmente avere recensioni positive o negative su certi siti come Tripadvisor non mi interessa però più di tanto perché è impossibile piacere a tutti. Se sono lusingato dall’aver ricevuto la prima stella Michelin? Beh, La Michelin ha sempre il suo fascino, non puoi chiedere di più se fai questo mestiere. Se però dovessi scegliere tra l’essere acclamato dalla critica o avere il ristorante sempre pieno di clienti, scelgo la seconda. Sono stato onorato di aver ricevuto la stella perché non c’è lusso nel ristorante e allora ho la certezza che sia stata meritata solo ed esclusivamente per la cucina.

Dopo la prima stella hai sentito crescere le responsabilità?
Io dimentico di averla ogni giorno, penso a mandare avanti la cucina. Chiaro, vorrei prendere la seconda, poi la terza, ma non è l’obiettivo. Il vero obiettivo, quello che mi manda avanti ogni giorni è il cibo, essere davvero soddisfatto dalla mia cucina.

Si capisce da molte cose che sei uno chef che ama stare in cucina. E se ti offrissero di fare Masterchef? Lasceresti per un po’ le redini della tua brigata?
Amo vivere la cucina. C’è un labile equilibrio che uno chef non deve mai dimenticare: mantenere il business in positivo e essere presente in cucina. Se servisse a promuovere il ristorante avrebbe comunque senso per il business. Per ora comunque ho perso forse solo 5 servizi da quando abbiamo aperto, insomma sono uno davvero presente. In ogni caso non declino niente senza pensarci, credo che ci in effetti ci penserei, ma per ora le cose stanno andando molto bene così e vorrei mantenere tutto immutato: il team lavora alla grande e il locale è sempre pieno. Ovviamente avendo avviato una bella organizzazione, forse potrei anche decidere di fare qualcosa fuori dal ristorante e sono certo che questo non ne risentirebbe. La cosa che ritengo primaria è quella di offrire l’esperienza migliore per il cliente perché Londra è piena di ristoranti e se un cliente non si è trovato bene, farà prestissimo a trovare altro.

Dabbous | UK | Londra | 39 Whitfield Street, London | tel. +44.020.73231544 | http://www.dabbous.co.uk/
Barnyard | UK | Londra | 18, Charlotte Street| tel. +44.20.75803842 | http://www.barnyard-london.com/

a cura di Alessio Noè

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