A B Cheese: Eleonora Baldwin e i formaggi. Pecorino romano e caciofiore

11 Nov 2015, 14:31 | a cura di Eleonora Baldwin

Una vita tra i formaggi, alla ricerca dei prodotti tipici delle nostre regioni e delle storie e le tradizioni che vi si celano. È quella di Eleonora Baldwin, protagonista di A B Cheese su Gambero Rosso Channel, e autrice di questo viaggio nell'Italia dei tesori caseari.

La mia è una vitaccia! Fatta di assaggi, curiosità e reportage, ricca di esperienze, incontri con persone meravigliose ed emozioni sensoriali uniche. Quel che più d’ogni altra cosa mi spinge è l’amore per i formaggi. Pensare che da bambina non li mangiavo. Poi a 15 anni, la folgorazione e da allora non mi sono più fermata. Il progetto a cui sto lavorando ora è una golosa ricerca per scoprire quanti più formaggi possibile, in giro per l’Italia, esplorando di volta in volta una diversa regione.

 

A B Cheese

Questo diario di viaggio si concretizza con il programma A B Cheese, viaggio nell’Italia dei formaggi, in onda il giovedì sera su Gambero Rosso Channel. Non solo: a partire da oggi, in un appuntamento settimanale, vi racconto di volta in volta due tipi di formaggi scovati durante il mio goloso peregrinare. Iniziamo dal Lazio.

 

Pecorino Romano

Il primo formaggio è il pecorino romano. Ne consumo grandi quantità grattugiato su piatti come bucatini all’amatriciana, mezze maniche alla carbonara, pasta “cacio e unto” – antico nome della gricia – tonnarelli cacio e pepe, a condimento della trippa al pomodoro e mentuccia. In primavera lo accompagno alle prime fave fresche in un infinito rincorrersi di sapori e consistenze, annaffiato da buon vino della zona, a me piace il gusto deciso del Cesanese.

 

Storia

Il pecorino ha segnato la storia del formaggio. I primi documenti che ne parlano risalgono all’Antica Roma: Plinio il vecchio, Varrone, Columella. È da queste prime testimonianze che scopro dei 27 grammi: un’oncia di pecorino stagionato era la razione che i soldati delle legioni romane ricevevano in aggiunta al pane e alla zuppa di farro. Una sorta di barretta energetica ante litteram, importante fonte di calcio e di proteine.

 

Territorio

Oltre duemila anni fa, quasi tutto il latte per il pecorino proveniva da pecore che pascolavano da ottobre a luglio nell’Agro Romano, mentre oggi per il 90% arriva dalla Sardegna. Assistere alla creazione di un formaggio per me è sempre emozionante, e anche se elementi e passaggi restano quasi sempre gli stessi, ciascuna lavorazione è un universo a sé. Temperature, caglio, rottura, impasto, attesa, forma e stagionatura: sono le variabili a cui va aggiunto il fattore umano, l’antico e tramandato sapere, la conoscenza e la tempistica determinate dal giudizio dell’uomo. Anche se le tecniche di produzione si sono evolute il pecorino romano è rimasto molto simile a quello di 2000 anni fa. La sua lavorazione, limitata al Lazio, alla Sardegna e alla provincia di Grosseto, è frutto di secoli di esperienza, e i passaggi fondamentali sono affidati ancora oggi alla mano e all'esperienza dell’uomo, in particolare del casaro e del salatore.

 

Lavorazione

Come si fa il pecorino romano? Innanzitutto con un ottimo latte di pecora da greggi allevate allo stato brado e alimentate a pascolo naturale. Misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo oppure termizzato, il latte è raccolto in vasche di coagulazione dette polivalenti, dove viene aggiunto un fermento chiamato “siero innesto”, preparato tutti i giorni dal casaro secondo un metodo che si tramanda da secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti del pecorino romano, costituito da un insieme di batteri lattici autoctoni. Dopodiché il latte viene coagulato a temperatura, utilizzando caglio di agnello locale. All’ottimale indurimento del coagulo, il casaro lo rompe con uno strumento detto “lira” (sembra un antico strumento a corde) fino a quando i frammenti della cagliata non sono grandi come un chicco di grano. Avviene poi una pressatura in parallelepipedi da 40 kg, posti in fasce per dare la prima rozza forma cilindrica. Dopo il raffreddamento e lo spurgo del siero, le forme vengono marchiate con con la nota testa stilizzata di una pecora in quello della Dop, la sigla del caseificio e la data di produzione.

 

Salagione e stagionatura

A questo punto inizia la salagione effettuata a mano che si alterna a numerosi passaggi su scaffale e dura minimo 5 mesi prima di essere messo in stagionatura per altri 12-24 mesi, sia “bianco” che con cappatura in nero, una tempo un isolante ottenuto con la morchia dell’olio, oggi solo una caratteristica estetica. Veder aprire una forma di pecorino è uno spettacolo. Il casaro traccia un’incisione lungo l’intero scalzo della forma – un cilindro alto 40 cm per 35 kg di bontà – poi inserisce una serie di appositi coltelli nell’incisione e soffia per far entrare aria nella fessura. Un leggero tocco ai coltelli e la forma si apre, rivelando al suo interno aromi e texture da sogno.

Una pasta compatta, talvolta leggermente occhiata, dal colore che oscilla tra il bianco e il paglierino. Spezzo teneramente la scaglia che mi viene offerta, al naso avverto il profumo di erba tagliata, di paglia umida e di latte. Una sensazione che mi riporta ai pomeriggi della mia infanzia! Lasciato scaldare appena il frammento in bocca, il gusto è aromatico, lievemente piccante e sapido.

Il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento” dice Lucio Giunio Moderato Columella nel De Re Rustica, un trattato di agronomia e zootecnica in dodici volumi che rappresenta la maggiore fonte di conoscenza circa l'agricoltura romana scritto nel 50 d.C.

 

Caciofiore

Il secondo formaggio che voglio raccontare oggi è il caciofiore della campagna romana, presidio Slow Food.

 

Storia

È considerato l’antenato del Pecorino Romano. Nel 50 d.C. Columella, nel De Re Rustica, descrive la lavorazione del pecorino e del formaggio caciofiore. Si tratta di un formaggio al 100% vegetariano, perché non è ottenuto con aggiunta di caglio animale, come nella maggior parte delle lavorazioni casearie, bensì con un infuso di cardo selvatico, che cresce nella campagna Laziale, che va raccolto a mano in estate.

 

Lavorazione

Si lasciano seccare gli stami del cardo selvatico, e dopo 20 giorni in sottovuoto si mettono in infusione in acqua per ottenere l’enzima acido che favorisce il coagulo del latte appena munto. Una manciata di coraggiosi produttori e allevatori nel Lazio ha deciso di seguire la ricetta di Columella e ha ridato vita all’antico caciofiore. Ciascuno ha un allevamento di ovini allo stato brado nelle colline laziali, nelle zone dei Laghi di Bracciano e Martignano e la Via Ardeatina, e ciascuno produce un magnifico caciofiore. Come lo fanno? Con tanta forza di volontà! La vita del casaro-allevatore non è facile. Per chi alleva le bestie da latte non esistono Natale, Capodanno, weekend o vacanze. Il latte munto va trasformato in formaggio immediatamente. La lavorazione del caciofiore parte dal latte crudo di pecora, e avviene entro poche ore dalla mungitura. Grazie agli enzimi del caglio naturale estratto dal fiore di cardo selvatico (Cynara Cardunculus), dopo circa 60-80 minuti avviene la coagulazione del latte. Si fa una prima rottura della cagliata in cubotti con una lama lunga e liscia, si lascia riposare per 20 minuti e poi si procede con la seconda rottura che avviene con il mestolo forato o lo spino. La consistenza della pasta è simile al budino, e i pezzi risultano irregolari e grossolani, grandi quanto una noce. La cagliata ottenuta si versa nelle fuscelle a forma quadrata per far spurgare il siero.

 

Salagione e stagionatura

Il giorno dopo, il formaggio viene tolto dalle fuscelle, salato a secco con sale marino, trasferito nella cantina di stagionatura e lasciato riposare su assi di legno. Dopo 30-90 giorni di stagionatura – durante la quale le forme sono state rigirate almeno una volta al giorno per evitare l’eccessivo sviluppo di muffe in superficie – finalmente lo si può assaggiare! Aprendo in diagonale la forma, una mattonella quadrata di circa 10 centimetri per lato con scalzo convesso, si avverte nettissima nel caciofiore la componente erbacea. La crosta edibile grinzosa e giallognola cela una pasta morbida e compatta con leggere occhiature e un cuore dalla cremosità commovente. Il profumo è quello della paglia bagnata, delle verdure cotte, e del latte. In bocca, scaldato bene nella masticazione, il gusto del formaggio è avvolgente, intenso, dolce e con un retrogusto lievemente amaro di carciofo dato dal cardo selvatico e con una nota grassa ben equilibrata. Le forme pesano 400-500 grammi e a casa mia durano pochissimo. Lo abbino a un calice di vino Pecorino a giusta temperatura, accompagnato da spesse fette di pane rustico come il Lariano. Evviva!

 

Questi ed altri formaggi li racconto in A B Cheese, viaggio nell’Italia dei formaggi, un programma che va in onda tutti i giovedì su Gambero Rosso Channel Sky 412 alle ore 21:30, a partire dal 12 novembre 2015.

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

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