La Fondazione Gambero Rosso è stata creata con lo scopo di dare attenzione e risalto a tutti i temi di ordine sociale e della ricerca che il nostro gruppo imprenditoriale segue costantemente. Vogliamo ora farci portavoce delle nuove leve, protagoniste di un nuovo corso della cucina italiana, insomma di quella che potremmo definire “La cucina del futuro”. Qui l'intervista allo chef romano Tommaso Tonioni, che l'estate scorsa ha dato vita a un virtuoso progetto all'interno dell'azienda agricola Pulicaro. L'ha chiamato Arso.
Dove hai studiato?
Ho iniziato con la panificazione, per poi passare in cucina, tra Italia, Australia, Belgio, Spagna e Francia.
Sei soddisfatto della tua formazione?
Direi di sì. Non ho frequentato scuole di cucina, vengo da studi artistici. Ho iniziato facendo lavori umili, in ristoranti dove si facevano grossi numeri. Non conoscevo la vera ristorazione, finché non la scoprii e me ne innamorai follemente. Di sicuro avrei voluto avere dei consigli in passato, per crearmi un percorso gastronomico dettagliato. Nonostante questo, ho sicuramente avuto una formazione completa, creandomi da solo il mio percorso da cuciniere.
Credi sia importante la formazione permanente?
Senza formazione non ci si può evolvere, e per il nostro lavoro è fondamentale. La ricerca per la formazione è continua, il bello di questo lavoro è che non si può smettere mai di imparare. Bisogna porsi tante domande, per capire quale sia la giusta formazione per avere una crescita idonea. Dopo aver fatto pane, pizza, panini, dopo essere stato nelle cucine di ristoranti con zero stelle, una stella; due, tre stelle, è arrivata l’ora di capire quale sia la strada migliore. Per me è stato ricominciare da capo, dalla terra, dalla campagna, dall’orto, dalla macelleria. Ripartire dalle basi della vita.
Chi è stato il tuo primo maestro?
Gabriele Bonci.
Chi è, oggi, il tuo punto di riferimento e perché?
Il mio punto di riferimento oggi sono tutte quelle persone con un approccio agricolo, che rispettano l’ecosistema e il flusso naturale della vita.
Da quali cucine, fuori dall’Italia prendi spunto?
Cerco di non prendere spunto da altre cucine, ma di costruirmi un mio modo di approcciarmi al piatto. Lo spunto lo si può prendere andando a una mostra d’arte, parlando con un allevatore o semplicemente giocando con delle forme geometriche. Lo spunto è tutto ciò che amiamo.
Luoghi o persone che ammiri?
Ammiro molto Asador Etxebarri come approccio all’ingrediente, mi piace molto l’estetica di La Grenouillère, ammiro lo studio sui sapori che fa il Noma e ovviamente impazzisco per la genialità di Pierre Gagnaire.
Quale è, secondo te, la cucina del futuro?
Una cucina sana, che segua i filoni culinari, non per moda ma per necessità. Una cucina di gesta dimenticate, che punti all’equilibrio nutrizionale, diretta e allo stesso tempo fuori dagli schemi. Una cucina che regali cultura.
Qual è il rapporto tra lo chef e la sala e tra lo chef e il food and beverage manager?
Lo chef dovrebbe avere un rapporto equilibrato sia con la sala che con la cucina, anche perché senza di questo non si potrebbe fare il nostro lavoro. Lo chef dovrebbe uscire dai dogmi comportamentali impostati dal nostro settore per scriverne di nuovi, migliorando l’ambiente quotidiano. Lo chef dovrebbe essere molto più umano che chef.
Tre qualità che deve avere un cuoco, oggi.
Tenacia, curiosità, cultura. La tecnica uccide la tecnica.
Tre indirizzi imperdibili nella tua città.
Bonci Pizzarium, Faro - Caffè Specialty e Bottega Liberati.
Tre produttori che consiglieresti ai nostri lettori.
È molto difficile rispondere a questa domanda, sono legato a moltissimi produttori, alcuni sono anche miei amici per questo ne citerò 3 unici nel loro genere: Carlo Nesler per miso e salse fermentate, La Piccola Fattoria di Flavio per il miele di spiaggia e Il Gobbo per la farina di ghiande.
Progetti futuri?
Divertirmi con il mio lavoro, creando un piccolo ecosistema dove proporre del buon cibo, fare ricerca sui prodotti e le antiche usanze italiane oramai dimenticate.
Ricetta del Raviolo Melitta, infusione di cera d’api e olio di elicriso
Per il ripieno
40 g di farina 00
40 g di burro
400 ml di latte
450 g di formaggio erborinato
Far sciogliere il burro, unire la farina e cuocere per un paio di minuti. Aggiungere il latte e il formaggio erborinato. Lasciar riposare il ripieno in frigo.
Per l'impasto
200 g di farina 0
50 g di semola
20 g di polline
2 uova intere
1 tuorlo
Impastare gli ingredienti, una volta ottenuto un composto omogeneo, lasciar riposare per almeno 2 ore. Stendere e formare i ravioli con l’apposito coppa pasta esagonale.
Per il brodo di cera d’api
2 l di acqua
220 g di fichi secchi
310 g di cera d’api
25 g di sale
Unire tutti gli ingredienti in una busta e cuocere in sottovuoto a 92° per 3 ore in forno a vapore. Lasciare una notte il composto in frigorifero, filtrare il tutto e portare di nuovo intorno ai 90°. Condire con aceto di miele e vermouth rosso.
Per l'olio d’elicriso
500 g di olio di vinacciolo
150 g di foglie di elicriso
Chiudere in una busta sottovuoto i due ingredienti e cuocere per 1 ora a 70° in forno a vapore.
Cuocere i ravioli 1 minuto in acqua bollente, scolare e adagiare 3 ravioli sul piatto fondo di portata. Aggiungere il brodo caldo e qualche goccia di olio di elicriso.
foto di Stefano Delìa
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