Nel giro di due anni, l'industria italiana della distillazione si troverà a pagare quasi il 30% in più di accise sugli alcolici. E il primo aumento scatterà tra meno di un mese: il 10 ottobre prossimo. Il provvedimento, deciso dal governo Letta, che serve per coprire gli annunciati investimenti previsti nel decreto “scuola” e una parte dei mancati introiti per la cancellazione dell'Imu, è di quelli che mettono in allarme tutto il sistema, facendo prevedere anni difficili. La filiera non nasconde certo le proprie preoccupazioni e fa quadrato. È molto forte l'opposizione di Assodistil, l'associazione che raggruppa gli industriali di settore (con un fatturato di quasi un miliardo di euro, e il 95% della produzione di alcool di origine agricola). I distillatori definiscono “inaccettabile e insostenibile” questo aumento fiscale che metterà “a rischio chiusura” decine di piccole e medie aziende. Il presidente Antonio Emaldi ricorda che dall’ultimo aumento dell’accisa nel 2006, si è registrato un progressivo calo dei consumi e del relativo gettito medio annuo nelle casse dello Stato, con una riduzione del 22,4% nel 2012 e del 6% rispetto al 2011. “Un accanimento” sostiene “che non ha nulla di terapeutico, e che metterà in difficoltà anche altri settori”, visto che le accise devono essere versate entro il 16 del mese successivo all'immissione in consumo del prodotto.
Dure proteste anche da parte del presidente di Assobirra, Alberto Frausin: “Un sorso di birra su due” rileva “lo destiniamo al fisco”. E punta l'attenzione sul rischio concreto che le vendite possano crollare dopo un'annata già complicata: “Da nostre stime, l’aumento dell’accisa porterà a un calo dei consumi di birra di circa il 5-6%, che si aggiungerebbe alla diminuzione dei primi sei mesi del 2013 pari al 3%”. Non solo: a soffrire sarebbe un intero settore, dove oggi operano 500 aziende tra marchi storici e microbirrifici artigianali, con 4.700 persone occupate, che salgono a circa 144mila con l’indotto allargato.
Puntuali sono arrivate anche le osservazioni della Federvini, presieduta da Lamberto Vallarino Gancia. Dagli uffici di via Mentana è partita una lettera infuocata a Governo e Parlamento, in cui si ricorda che i due aumenti ravvicinati (10 ottobre e 1 gennaio 2014) imporranno oneri aggiuntivi rilevanti “anche solo per l'aggiornamento amministrativo, ben sapendo che da tali aumenti non arriveranno benefici per l'erario. Gli effetti di questa scelta” sottolinea Gancia “saranno inefficaci e anzi controproducenti per quanto riguarda gli impatti”.Il risultato è che la competitività delle imprese sui mercati sarà intaccata, così come ad andare in difficoltà sarebbe un comparto che conta oltre 330mila posti di lavoro full time e contribuisce all'erario per 8,5 miliardi di euro tra vini, spiriti e aceti (dati 2011). Gli effetti maggiori si ripercuoteranno, secondo la Federvini, sulle moltissime piccole imprese, a prevalente conduzione familiare “che caratterizzano il grande valore del sistema e della filiera”.
Grido d'allarme anche da parte del presidente dell'Istituto nazionale grappa, Elvio Bonollo, che auspica una revisione del decreto in Parlamento nell'iter di conversione in legge. E attacca: “Il sistema delle accise forti viene utilizzato nei Paesi nordici, che le fissano su livelli più elevati di quelli italiani, per limitare il consumo smodato di alcool, ma in Italia questo aspetto sociale non si rileva. Nel nostro Paese, le accise rivestono un'utilità quasi esclusivamente fiscale. Tuttavia, è dimostrato che agli attuali livelli di accisa ogni aumento si rivela essere un clamoroso flop da parte dello Stato, che incassa minori accise poiché i consumi, a fronte dei forti aumenti di prezzo, determinati appunto dalla maggior pressione fiscale, calano più che proporzionalmente, con l’effetto di lasciare un maggior buco nelle casse dello Stato”. Da un eventuale aumento delle accise, secondo l'Ing deriverebbe una contrazione dei consumi della grappa nazionale del 35-40% “che annullerà il previsto aumento di introiti, e costringerà le 140 distillerie italiane a ridurre personale e investimenti, se non a chiudere. Il tutto a vantaggio delle multinazionali. Un vero e proprio autogol”.
a cura di Gianluca Atzeni