Tendenze Vino. Un'estate in rosa

23 Nov 2011, 15:36 | a cura di

Sulla scia del successo internazionale anche in Italia i consumi del Rosé continuano ad aumentare. La qualità in tutte le regioni è in crescita verticale. perfetto da abbinare a tantissimi piatti. Ideale in questa stagione...

 

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Chiedereste mai un Lagrein  Kretzer con la stessa naturalezza con cui chiedete un Pinot Grigio o uno Chardonnay? Se è vero che il destino è scritto nel nome, quello dei rosati è di non averne sempre uno. Rosato sì, ma di quale vitigno parliamo: montepulciano, negramaro, cannonau, merlot, lagrein...?
Eppure, nonostante l’anonimato, i Rosé avanzano come una minoranza silenziosa che si intrufola in liste di vini griffatissime, senza strepito ma con consenso crescente. Come già avviene  all’estero, Francia in primis. Là, altro che  pregiudizi, altro che considerare i Rosé né carne e né pesce,  sono invece vini da carne e da pesce, Jolly preziosi da tirar fuori dal mazzo in ogni occasione. Trasversali, diversamente colorati, femminilmente tinti, ma non per questo meno buoni  e meno importanti. Rispondono, i rosati, al sound ricorrente dei vini freschi e godibili, bevibili e a bassa gradazione alcolica. «Ne fanno richiesta soprattutto i clienti americani e quelli del Nord Europa mentre per gli italiani è per lo più un aperitivo da bere sulla terrazza a bordo mare»,  fa notare Maurizio Figuccio, assistant restaurant manager del Posta Vecchia di Ladispoli (fa parte della Relais & Chateaux) secondo il quale  «a livello psicologico il rosato è ancora percepito  in Italia alla pari di un cocktail rinfrescante, qualcosa di simile al Kir Royal». Tuttavia molte cose stanno cambiando. A raccontare il nuovo mood è Maida Mercuri, attenta patronne nonché sommelier del Pont de Fer, sui Navigli milanesi, sguardo spesso rivolto alla Francia con una selezione preziosa di piccoli produttori di Champagne (di cui molti Rosé) e numerose proposte di vini fermi rosati: «”Rosé? Macché”,  mi avrebbero detto i clienti qualche anno fa. Oggi invece mi dicono: “Ma un bel Rosé per esempio?”. La gente si è resa conto che la qualità di questi vini è nettamente  migliorata al punto che, se chiudi gli occhi, puoi persino pensare alla struttura di un vino rosso. Niente più  note ossidate e caramellate. Profumi floreali e fruttati gradevoli, sono gli altoatesini e i pugliesi a fare da traino». «Sì, sono vini che stanno benissimo con piatti a base di pomodoro perché tengono testa alla sua acidità. E poi sono ideali con i fritti perché sgrassano come un buon Lambrusco», ne tesse le lodi Luigi Cataldi Madonna, il produttore aquilano che ha dato lustro (Valentini a parte, of course!) al Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo. La nuova generazione di produttori italiani non è stata certo con le mani in mano ad attendere i favori del mercato. Sono in tanti ad averci scommesso, a prescindere, pronti ora a stendere la rete e a raccogliere i frutti che si vedrà quanto copiosi. Basta del resto osservare come nella gamma dei produttori della Penisola un Rosato non manchi mai, anche fuori dalle zone tradizionalmente vocate: dal Chianti (Castello di Ama) a Montalcino (Biondi Santi), dalla Sicilia (Planeta) alla Sardegna (Pala). E così, dal 2009 al 2011 la presenza di vini rosati nella Guida dei Vini d’Italia è aumentata del 30 per cento, un dato indicativo della nuova effervescenza ma anche di un diffuso livello di sperimentazione. La  rivoluzione del rosato si sta compiendo un po’ ovunque. In Sicilia coraggiosi imprenditori hanno femminilizzato vitigni  come il nero d’Avola, tradizionalmente sfruttato per vini forti, concentrati e potenti, orientandolo invece verso il versatile rosato. Idem in Sardegna dove l’arcaico cannonau  gioca in Barbagia anche la sua partita rosada. O in Piemonte dove un vitigno nobile come il nebbiolo anche nell’accezione Rosato dà ottimi risultati.
Fenomeno comunque non solo italiano.  Prova ne sia che persino nella Champagne non c’è un produttore che si neghi oggi la sua bella bollicina rosa. E nello stesso Tavel, nel Sud, culla storica dei rosati, dove la nuova generazione di produttori (più di un migliaio nel Rodano - di cui il 20 per cento con meno di 35 anni)  sta scommettendo alla grande sulle performance  dei grenache, dei cinsault (ma anche dei syrah o dei mourvèdre) vinificati in rosa. «Indubbiamente – sostiene ancora Cataldi Madonna, «in Francia hanno un’altra tradizione. Sanno che si tratta di una bevuta importante. Il culto del Rosé è diffuso ovunque, non come dai noi dove il consumo è ancora molto localizzato soprattutto nelle aree tradizionalmente vocate. Con queste premesse non si poteva pensare che potesse subito sfondare se non nelle zone  dove si era abituati a berlo. Tuttavia il pubblico attento riesce oggi a valutare il livello qualitativo». Vento in poppa dunque ma non bisogna neppure dimenticare che in Italia il rosato deve ancora scrollarsi  di dosso la sua passata cattiva fama. I francesi per esempio non devono trascinarsi dietro questa zavorra. Nel loro dna non è scritta l’equazione tutta italiana vino rosato uguale vinaccio. Per fortuna anche da noi è finito il tempo delle uve di scarto o del “salasso”, la svinatura in rosa che ci dà il rosato e irrobustisce il rosso. Oggi le uve sono selezionate apposta per un futuro orgogliosamente in rosa. I vitigni, come abbiamo visto, sono spesso  gli stessi utilizzati per i rossi, scelti magari con particolari esposizioni o in determinate aree. Naturalmente ci sono uve più vocate, con un’autentica tradizione alla vinificazione in rosa. Tra queste  il negramaro. Uno dei rosati pioneri in Italia è stato proprio quello della famiglia Leone de Castris, a Salice Salentino, il famoso Five Roses che sul finire della seconda guerra mondiale ritemprò le truppe americane e poi conquistò il mercato d’Oltreoceano. Ma insieme a personalità per così dire storiche (come l’altro pioniere, il Rosatello della Rufino) iniziano a intravvedersi nei rosati fisionomie e stili precisi non più solo nell’ordine del vino “fruttatino, acidulino  e pulitino” o con le leziosità di fragole e lampone, ma intensi, pieni, vivi scattanti. Già dalle diverse sfumature del rosa puoi cogliere il loro bel carattere, dal  ramato buccia di cipolla dei rosati del Garda (Chiaretto o Bardolino), i più beverini e semplici, fino ai toni tendenti con decisione al rosso del Montepulciano Cerasuolo a denunciare corpo, struttura e ambizione. 
Quelli che erano “sciacquature di botte” (o, come dicono i tecnici, prodotti secondari) stanno insomma diventando dei begli anatroccoli, se non proprio dei bei cigni. Il Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo di Valentini è senz’altro il cigno più maestoso, quello che può elegantemente portare in giro i suoi piumaggi anche per quindici anni. 
Ma in via di riscatto ci sono anche prodotti semplici e popolari, senza troppe ambizioni come i Chiaretto o i Bardolino, e però oggi più impettiti e in vena di rivalsa sociale. In Francia nessuno si scandalizza se passi da un grande Bordeaux a un Bandol Rosé.
Anche da noi gli spazi si sono aperti e vista l’insofferenza per certa aristocrazia enologica con pomposissimi rampolli al seguito, stili meno sussiegosi e informali non guastano. Vedi per esempio come è andata ai Lagrein Kretzer.
«Fino al 1980», racconta il kellermeister della cantina altoatesina Muri-Gries, Christian Verth «vinificavamo la maggior parte delle uve in rosato. La tradizione del Kretzer esiste solo nella nostra zona ed è sinonimo del vino vero bevuto dal popolo. Poi arrivò il tempo dei vini rossi ricchi e importanti e si cominciò a vinificare il rosso Lagrein Dunkel. Roba recente, degli ultimi 25 anni. È sopraggiunta quindi la moda dei vitigni autoctoni e il Lagrein ancora una volta si è trovato in prima fila. Da otto anni a questa parte, sarà per via delle numerose manifestazioni sui rosati che si fanno anche  in zona, ma il nostro vecchio rosato sembra vivere una nuova stagione». Presente la merenda altoatesina  con il tagliere di formaggi e speck: rosso o rosato? Montecchi e Capuleti....

Raffaella Prandi
2011

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