Lo Starbucks di Roma non mantiene le promesse. Ecco perché

31 Lug 2023, 17:12 | a cura di
Se c’è un dettaglio che più di tutti contraddistingue Starbucks è la certezza di trovare, in qualunque parte del mondo, lo stesso ambiente. Ovunque, tranne che a Roma, dove la caffetteria ha ingranato bene, ma perdendo gran parte della sua identità.


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Un successo già annunciato. Così avevamo definito l’arrivo del primo Starbucks al centro di Roma, davanti al Parlamento.

Non ci eravamo sbagliati: la coda fuori al locale è sempre presente, i ragazzi immortalano il frappuccino da condividere sui social, i turisti attendono pazienti il loro turno. Il bancone è ricco, colorato come la parete di fronte al bancone piena di gadget, la fila scorre in fretta e le bevande tra cui scegliere sono molte. Non manca niente, eppure manca tutto. Perché al civico 56 di via della Guglia non sembra di stare da Starbucks. E questo è un male.

La magia di Starbucks, a New York come a Berlino

C’è un motivo – anzi, più di qualcuno – se Starbucks nel resto del mondo funziona: l’atmosfera. Creata proprio dalla straordinaria replicabilità di un format vincente. Mai come nel caso del gigante di Shultz la standardizzazione diventa un valore aggiunto, garanzia che fa sentire i clienti al sicuro, sul prodotto ma ancor prima sul luogo. Si entra in uno Starbucks a New York o a Berlino e ci si sente comunque a casa: staff preparato e cordiale, servizio veloce e attento, studenti che trascorrono ore davanti ai libri con una tazza di caffè, famiglie che fanno merenda, turisti che si riparano dalla pioggia, lavoratori che scrivono al computer. È la magia di Starbucks, quel nonluogo dove non ci si perde mai, dove si è in tutto il mondo senza coordinate precise. Uno spazio che non ha contorni dove ci si può fermare a leggere, familiarizzare, accomodarsi senza pagare di più per sorseggiare la bevanda al tavolo. Cinque minuti o due ore, poco importa, non ci si sente mai in dovere di consumare di più. Per chi ha viaggiato, è la normalità, è “semplicemente” Starbucks. Così ovunque, tranne che a Roma.

La mancanza di atmosfera allo Starbucks di Roma

Sono trascorsi meno di tre mesi dall’inaugurazione del punto vendita – il primo nella Capitale, a cui ha fatto seguito la sede alla Stazione Termini – e di magia non c’è traccia. La coda fuori il locale si smaltisce in fretta (il servizio è ineccepibile anche negli orari di punta, veloce e attento), una volta dentro si ordina la bevanda per poi spostarsi nella sala accanto o in quella superiore. Il primo piano è ampio, bello, ma niente qui ricorda l’ambiente tipico della catena: c’è confusione, il chiacchiericcio – a un livello medio comprensibile e auspicabile in una caffetteria – è tutt’altro che rassicurante, l’età media è quella adolescenziale, giovanissima, dai tredici ai quindici anni. Sono gruppetti di amiche armate di smartphone e Refresha, le bibite fresche e sgargianti pensate per l’estate, coppie di studenti… non ci sono persone sole a scrivere, studiare, non ci sono famiglie, studenti universitari e più in generale non ci sono adulti, anziani, non c’è il pubblico eterogeno a cui Starbucks, luogo per tutti, ci ha abituati.

Starbucks a Roma è un fenomeno

Non è certo colpa di Percassi, licenziatario unico di Starbucks in Italia, se il format qui non sa restituire il clima di sempre (un unico appunto riguarda una certa trasandatezza nei bagni, con tanto di lavandino rotto al piano superiore e più in generale condizioni igieniche non all’altezza del brand). Né, tantomeno, del personale giovane capace di offrire un bel servizio.

Ma qual è, allora, il problema? Comincia già da fuori, dalla fila, che non rappresenta un ostacolo in sé ma che risulta comunque fuori luogo con il marchio. Questo è il punto cruciale: Starbucks a Roma è ancora un fenomeno, una novità, un format insolito a cui la clientela non è avvezza. È naturale che un’unica insegna nel centro storico (più quella alla stazione principale) non sia sufficiente a soddisfare le esigenze di una città di simili dimensioni, ed è altrettanto scontato che una sola caffetteria (per di più bellissima, dal design curato) finisca per diventare un’attrazione più che un “semplice” luogo di aggregazione.

Il format che manca e che non riusciamo a replicare

Che servano altri punti vendita? Forse. Certo è che per ora un format del genere in città resta un’eccezione, non la regola. Non si tratta solo della proposta (la Capitale negli ultimi due anni è cresciuta moltissimo in materia caffè, ma questa è un’altra storia), piuttosto della natura stessa della caffetteria, così distante da quel concetto di bar all’italiana, lo stesso dal quale l’avventura di Shultz aveva tratto ispirazione (l’attuale identità del brand la si deve in gran parte al viaggio dell’imprenditore a Milano nell’83). Eppure, l’approdo di Starbucks nella Penisola è già avvenuto da un po’, con il primo Reserve Roastery di Milano nel 2018: una novità per l’Italia ma in realtà per tutta Europa, considerando che si tratta dell’unica sede Reserve – il format più esclusivo in termini di offerta e design – di tutto il Continente. In fila, quella volta, c’erano centinaia di persone, l’ambiente era diverso, ma ben presto in altri quartieri hanno fatto capolino le sedi originali, quelle “verdi” (San Babila, Garibaldi, Malpensa, Restelli, Stazione Centrale, Vercelli) dove i fan della catena hanno potuto ritrovare quello stile inconfondibile.

Le cose al bar di Montecitorio, in qualsiasi caso, procedono bene (anzi, benissimo). Per poter funzionare a Roma, però, la catena sta snaturando sé stessa. Il format resta vincente, ma perdendo molto, almeno per chi sotto l’insegna verde della sirena ha sempre trovato un senso di familiarità.

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