Stefano Kratter è il sommelier friulano che ha rivoluzionato il modo di tenere i vini in cantina

26 Set 2023, 16:24 | a cura di
Classe '93, nato e cresciuto a Sappada, Stefano Kratter in Friuli ha legato la cultura del vino alla tecnologia e all’innovazione.

Il mio obiettivo era fare il maestro di sci. Anzi, dirò di più. Diventare direttore della scuola sci di Sappada”. Chi parla è Sefano Kratter, 30 anni, sommelier e responsabile della cantina del ristorante Baita Mondschein a Sappada (Ud), gruppo che più di famiglia non si può: papà Paolo, mamma Irene, il fratello Federico (cuoco) e la sorella Sofia, un’impresa nata 34 anni fa, una delle migliori tavole del Cadore...pardon, del Friuli, visto che da sei anni Sappada ha cambiato regione. Qui tutto funziona: qualità del cibo, bellezza del luogo (dentro e fuori), cura dei particolari, vista, professionalità e accoglienza.

Stefano Kratter, l’amore per il vino e la famiglia

Missione, dirigere la scuola di sci. Poi, però, cosa è successo? “A un certo punto ho riflettuto sul fatto che con il mio carattere avrei fatto fatica ad accettare compromessi. E quindi ho pensato che la cosa migliore fosse impegnarmi nell’attività di famiglia, la ristorazione. Quando poi mi sono reso conto che anche i miei fratelli avrebbero fatto parte dell’impresa ho capito che con la forza del gruppo e della famiglia unita avremmo potuto fare delle ottime cose”. E le stanno facendo, non c’è che dire. Ci sono posti in cui capisci alla svelta che chi ti sta di fronte questo mestiere ce l’ha cucito sulla pelle, gli scorre nelle vene assieme al sangue. Stefano, per dire, lo guardi mentre racconta il vino con competenza, passione, amore, ma senza prevaricare, senza salire in cattedra, e pensi: “Caspita, bravo ‘sto ragazzo”. Di quelli – per capirci - che il vino non solo lo propongono, lo consigliano, ma lo valorizzano, trasmettendo il rispetto per vignaioli e contadini. Forse non fa miracoli, Stefano, non converte gli astemi, ma spesso vince le resistenze degli indecisi, o di chi non ama avventurarsi attraverso sentieri impervi e alla fine si fa incuriosire, si fida.

Chi è Stefano Kratter, il sommelier di Sappada

Classe 1993, nato e cresciuto a Sappada, diplomato all’ITC di Santo Stefano di Cadore, sommelier a vent’anni, barman e barista a Kitzbühel e Londra, tanto per farsi le ossa, dal 2014 nel ristorante di famiglia, in sala dal 2017, Stefano in sei anni non solo ha rinnovato e ampliato la carta vini inserendo nuove etichette, vini di prestigio e internazionali (siamo attorno a quota mille, al momento), ma ha realizzato il Kaveau, la bella cantina del Mondschein, ha legato la cultura del vino alla tecnologia e all’innovazione e, assieme al suo braccio destro Riccardo, studente di economia perfettamente integrato nel gruppo al punto che molti lo scambiano per il quarto fratello, ha fatto un enorme lavoro a livello di gestione magazzino e statistiche di vendita: “Ora sappiamo esattamente e in tempo reale cosa c’è in cantina e cosa manca, abbiamo il quadro sui consumi e sulle preferenze dei clienti, possiamo gestire gli ordini con il dovuto anticipo e ottimizzare anche l’aspetto economico della carta”.

I vini del cuore

A proposito di preferenze? “Il Pinot Nero resta un grande classico, non tramonta mai. È un vino amato da tutti, che ha il vantaggio di poter esser grande e costoso ma anche più facile e alla portata di molti e, per quanto ci riguarda, si adatta benissimo alla nostra cucina. E su questa tipologia l’Alto Adige è per me il numero uno. Spingiamo molto gli autoctoni friulani, dal Tazzelenghe allo Schioppettino alla Ribolla, mentre fra i bianchi ho una preferenza per i vulcanici, dai Soave ai vini dell’Etna, in sintonia con molti nostri piatti”. Poi c’è un volume importante di consumo sul Collio, ovviamente. E infine le bollicine: “Qui si va a mode. Per esempio, nel dopo Covid ci fu il boom dello champagne, l’anno successivo il recupero del Trentodoc e infine, quest’anno, un ritorno del Franciacorta, che era un po’ sceso nelle preferenze e in questa estate è molto richiesto”.

Donà Rouge, il vino preferito di Kratter

Chiedere il vino del cuore fra centinaia di bottiglie in cantina e chissà quanti assaggi è esercizio un po’ sbrigativo, ma Stefano sta al gioco: “Se proprio devo scegliere, e ovviamente fra tanti, non è facile, dico il "Donà Rouge", una delle quattro riserve del vignaiolo altoatesino Hartmann Donà, intenso ed elegante, che nasce nella valle che collega Bolzano a Merano”. Un rosso a base di Schiava, il vitigno autoctono più tipico dell’Alto Adige, con l’aggiunta di un 2% di Lagrein e un 3% di Pinot Nero “che completano l’idea di uno vino che mi ha fatto appassionare dalla prima volta che l’ho assaggiato all’età di 18 anni e al quale, probabilmente, devo il mio innamoramento per il vino”. Donà coltiva le sue vecchie vigne a Cermes, “su terreni molto ripidi e scoscesi, con forte presenza di sostanze minerali. Un habitat estremo per la vite, che in queste condizioni produce poca uva di eccellente qualità. L’obiettivo di Hartmann” continua Steno “è produrre vini che sappiano esprimere l’autenticità del territorio, cercando di portare nel bicchiere le sfumature tra le diverse tipologie di suoli. Gli interventi in cantina sono minimi e sempre fatti per mantenere l’integrità espressiva della materia prima. Il processo di affinamento è lunghissimo, fra legno e bottiglia, e regala aromi complessi, evoluti e di grande finezza espressiva. Il frutto e la freschezza di Schiava e Pinot Nero, si sposano perfettamente con la struttura del Lagrein, creando armonia ed equilibrio”. Quanto alle vigne, “hanno un’età di 40-50 anni e sono coltivate a un’altitudine di circa 450 metri sul livello del mare. Al termine della classica vinificazione in rosso, il vino matura 23 mesi in botte grande di legno e completa l’affinamento con 2 anni in bottiglia. Ha colore rosso rubino e al naso ricorda aromi di piccoli frutti a bacca rossa, confettura di frutta rossa, note di sottobosco, cenni speziati, sfumature balsamiche e di erbe di montagna. Al palato è di medio corpo, sorso scorrevole e finale lungo e fresco”.

a cura di Claudio De Min

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