Milano, ieri, oggi, domani. Conversazione con Aimo Moroni

20 Gen 2017, 12:30 | a cura di

Un luogo, anzi il Luogo, che ha cambiato le sorti della cucina contemporanea, con piatti che, dopo quasi 50 anni, sono ancora in carta. Signature dish, certo, ma anche espressione di una cucina intelligente, gustosa, ragionata, incredibilmente contemporanea. Quella di Aimo e Nadia, oggi interpretata dalla coppia Negrini-Pisani che è riuscita nel difficile compito di raccogliere il testimone.

In via Montecuccoli, a Milano, Aimo insieme alla sua Nadia ci stanno da 50 anni. Quando uscì la prima guida del Gambero Rosso, l’edizione del 1991, insieme a quella di Milano, non era immediatamente comprensibile la maniacalità di Aimo Moroni nei confronti della qualità degli ingredienti che usava in cucina. L’elemento prezzo faceva da contrappeso all’esperienza più che positiva della sua cucina. “Ma io, da sempre, fin da quando ho iniziato a lavorare a Milano, nel ’46, prima di aprire il ristorante che ancora c’è, ho sempre e con tutte le mie energie puntato alla qualità delle materie prime”racconta Aimo, che da qualche anno ha lasciato il testimone a sua figlia Stefania e al duo di cucina, Fabio Pisani e Alessandro Negrini, che ancora (da oltre dieci anni) è lì. “Ho fatto quel che ho fatto solo per vedere i miei ospiti soddisfatti: erano loro a darmi la mia gratificazione, quando si alzavano contenti, felici dell’esperienza trascorsa a tavola. In cucina ci sono la tecnica, la tecnologia, l’esperienza, il talento… ma quel che per me conta davvero è la qualità del cibo. C’è chi, davanti a diverse cipolle o risi, non sa quale usare per fare un’insalata o un risotto. Io ho girato in lungo e in largo per imparare questo, per saper scegliere la cosa giusta nel momento giusto”.

 

Aimo e NadiaAimo e Nadia. Foto Brambilla Serrani

La Milano di ieri

La Milano di qualche decennio fa non era ancora la capitale del pesce, si mangiava ancora una cucina sostanzialmente di carne… “Sì, era la Milano dei nervetti caldi, del piedino di maiale bollito in salsa verde, del riso con la coratella… La mortadella non la chiamavano mortadella, ma jambon di magutt (prosciutto del manovale, in milanese) perché era il pranzo dei muratori… Nelle macellerie c’erano gli scarti, in un vassoio sotto il banco e si chiamava proprio sottobanco, così come nei panifici c’era il pane raffermo avanzato, al mattino presto”ricorda Aimo ancora fiero di quei tempi che un po’ nostalgicamente ripercorre col suo racconto.

 

La ricerca

Ricordo che andavo a Borgotaro a prendere i porcini… Proprio qualche giorno fa un mio ex sommelier che lavorava qui nei primi anni ’70 ed è rimasto per oltre dieci anni, Francesco Brussolo, è passato a salutarmi e mi ha portato dei funghi secchi dalla Sila. Sì, perché lì hanno una grande produzione di funghi e i porcini non hanno invece una vita molto lunga per cui vanno essiccati: erano eccezionali. Ogni tanto Francesco passa per farmi assaggiare ciò che trova e che secondo lui vale la pena” racconta, e aggiunge:“Questo per dire che la ricerca è continua, è la mia vita. In quei primi anni milanesi, andai a trovare un macellaio di Boves, in provincia di Cuneo, tal Martini: beh, la sua carne è ancora la mia carne, da mezzo secolo. Ora anche lui è diventato famoso. La costante della mia vita professionale è stata la ricerca della qualità in tutto, dalle farine all’olio, dal pesce alle verdure. Ed è ancora così!”

 

Una cucina di prodotto in una Milano da bere

Ma cosa pensavano i milanesi, allora, di questa cucina tutta di prodotto? “Qualcuno la definiva una cucina povera, ma non esiste una cucina povera o una cucina ricca. L’elemento che fa davvero al differenza è il sapore, la freschezza… Mi chiedevano come fosse possibile che in un ristorante come il mio non si trovasse il caviale. Io allora portavo al tavolo il mio, di caviale: pomodoro secco di Sicilia, capperi e olio extravergine di oliva. Una cosa stupenda”. Perché la tua cucina era particolare? “In realtà, con una grande varietà di materie prime di eccellenza a disposizione, in via Montecuccoli ho sempre cercato di privilegiare gli ingredienti e di fare una cucina per alcuni versi semplice. Per alcuni anche disarmante”. Tutto nasce da come si guarda alla cucina, che è passione, ricerca, studio: “Per fare la differenza ci vuole curiosità, serve l’esperienza delle materie prime con cui ci si rapporta” dicee poi spiega: “la cucina non nasce sui libri, nasce da un’altra parte” e conclude: “Non mangia bene solo chi mangia il filetto, le ostriche o le aragoste: la mia zuppa e i miei spaghetti sono forse molto più buoni e sani”.

 

Zuppa etruscaLa zuppa etrusca. Foto Brambilla Serrani

 

I piatti storici

Qualche piatto di allora? “La mia cotoletta milanese era una entrecôte selezionata da Martini cotta al giusto rosa in leggerissima crosta di pane. C’è chi ancora me la chiede” e poi passa ai signature dish del Luogo, quei piatti che hanno accompagnato negli anni i tantissimi, milanesi e no, che si sono seduti alla sua tavola: “il mio minestrone, che si chiamava e si chiama zuppa etrusca, è ancora in carta: nacque 44 anni fa, fatto con tre legumi e cereali, verdure dell’orto e un filo di olio a crudo, cotto nel coccio. Non c’è nessun grasso in cottura, il risultato è di un sapore incredibile”. E i più famosi, immediatamente riconducibili al locale di via Montecuccoli, ormai un simbolo del locale: “Anche gli spaghetti al cipollotto (foto di copertina di Brambila Serrani), nati anni e anni fa, sono ancora un classico: vermicelli di Benedetto Cavalieri, cipollotto di Tropea, olio extravergine di oliva e basilico di Pra e peperoncino di Diamante o peperone di Senise”. Ingredienti semplici. La loro storia? È semplice anch'essa: “Volevano essere il mio aglio e olio: ma un piatto di spaghetti aglio e olio, pure buonissimo, rischia di anestetizzare le papille gustative per le due ore seguenti e non si apprezzerebbe più nulla delle portate successive. Così invece il sapore è deciso e intenso, ma allo stesso tempo delicato, non aggressivo”.

 

E poi c'è anche la coda di bue, un altro piatto storico:“l’ispirazione di questo piatto nasce dal bue grasso di Carrù e viene cotta a fuoco dolcissimo, per almeno 4 ore, nel Barolo Chinato di Cappellano (e solo in questo!), poi si disossa, si aggiunge un po’ di tartufo al succo di cottura e si pone accanto un purè fatto solo con buon burro e ottime patate. Anche questo è un piatto richiestissimo. Può sembrare un piatto povero, ma alla fine costa come un filetto, visto il prezzo al chilo (oltre i 20 euro) e l’osso che si butta via!” Soddisfazioni? Tante: “Un grande medico, forse il più grande che abbiamo (e non voglio fare nomi) dopo aver mangiato la zuppa e gli spaghetti, mi disse: Aimo, tu rendi sapore e salute. Ecco, il miglior complimento che potessi ricevere”.

 

La nuova Milano e il passaggio del testimone

È sereno Aimo, da qualche anno“felicemente pensionato”come si definisce lui. “Parlo di queste cose col cuore, ora nel Luogo di Aimo e Nadia ci sono i giovani, c’è una gioiosa ventata di novità”dice, e poi parla anche di come è diventata la “sua” Milano “Oggi è cambiata: ci sono tanti etnici, tante possibilità di scelta. Una volta il pesce era la sogliola alla mugnaia. Oggi c’è di tutto. È anche un bene, mi piacerebbe provare cose diverse. Ad esempio una battuta di carne cruda con sette spezie. Nella mia c’era solo olio di oliva: forse io son rimasto a quella, ma assaggerei volentieri anche quella alle spezie”.

C’è Stefania, però, a raccontarci gli ultimi anni di un Luogo che da tempo ha cominciato a costruire il suo futuro. “Daquando”sorride la figlia di Aimo e Nadia “abbiamo deciso di prendere in cucina non un cuoco, ma due cuochi: Alessandro Negrini (valtellinese) e Fabio Pisani (pugliese). I due ragazzi uscivano da un’esperienza comune dal Pescatore dei Santini e non volevano separarsi nel lavoro. Così abbiamo accettato di provare a lavorare con loro”. Come è andata lo possiamo intuire vedendoli ancora oggi, affiatati al comando di questo locale. Ma non è stata una cosa subitanea, c'è voluto del tempo: “Sono stati almeno sei anni prima di poter dire la loro. C’era ancora Aimo, c’era Nadia… Loro sono rimasti nell’ombra, ma sono cresciuti, hanno assimilato la lezione di una vita: perché più che di ricette, questa cucina è fatta di esperienze, di metodo, di rapporti. Siamo una famiglia, una squadra: si condivide e si prova tutti tutto, si parla, si riflette, si critica e si ripensa. Questo è l’insegnamento di una cucina di famiglia, vera”.

 

http://www.gamberorosso.it/wp-content/uploads/LUOGO/negrini-pisani-dellagnolo-moroni-piras-credits-s--magni.jpgAlessandro Negrini, Fabio Pisani, Nicola dell'Agnolo, Stefania Moroni, Alberto Piras. Foto: S. Magni

L'era Negrini-Pisani

Domanda difficile per Stefania, dovendo raccontare la storia di Aimo e Nadia attraverso dei piatti, cosa ti viene in mente? “Quello che ti ha raccontato Aimo, in realtà, è proprio la base del nostro lavoro, l’idea di una cucina che partiva, in tempi non sospetti, dal rapporto con il prodotto, da processi di lavorazione rispettosi” e racconta di questa cucina che non è mai stata regionale: né lombarda, né toscana. Ma fatta di percorsi intorno a prodotti e idee”. E di , volendo inseguire le tracce di questi percorsi, tornano i piatti simbolo del Luogo: il “piatto dell'origine” come lo chiama lei, la zuppa etrusca, ma anche gli spaghetti al cipollotto“ricette non ha senso descrivere: si capiscono solo assaggiandole”. Ma aggiunge altre voci a questo ideale menu del cinquantennale: “Un altro piatto strepitoso era il risotto con le primizie: ma se non l’assaggiavi non potevi capire quel piatto che andava in carta solo per un mese l’anno, legato a doppio filo a quei particolari ingredienti che erano così solo in quel mese”.

 

Maialetto di Cinta. Foto Brambilla Serrani

Si avvicina a grandi passi all'oggi, con un piatto che unisce il passato al futuro: il maialino croccante e morbido in diverse cotture. “Qui ogni cottura racconta cose diverse del prodotto: la gamba, la costoletta e la testina, presi da maiali allevati in Umbria e lavorati poi interamente da noi”.

La seppia, invece, può essere il futuro: “un futuro che recupera i gesti antichi come il massaggio della seppia per ammorbidirla (che ora facciamo con un aggeggio meccanico inventato dal padre del nostro Fabio); viene farcita con interiora e pane raffermo e nero, accompagnata da una scamorza affumicata passata nel latte che riprende la morbidezza della seppia; quindi, marmellata di limoni fatta da noi a freddo e con lunga macerazione, olive che passiamo noi in salamoia, le nostre mostarde e il lampascione candito da noi”. Un piatto ricco, molto armonico e personale.“Ogni elemento ha dentro un pezzetto della nostra storia”.

 

Il Luogo di Aimo e Nadia | Milano | via R. Montecuccoli, 6 | tel. 02 416886 | www.aimoenadia.com

 

a cura di Stefano Polacchi

 

 

Articolo uscito sul numero di Dicembre 2016 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

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