Fritto e limone: sì o no?

16 Ott 2023, 13:40 | a cura di
La querelle ha origini secolari: se ne discute fin dal Medioevo, ma non sembra esserci soluzione. L’agrume riesce a conferire alla frittura quel tocco di acidità che la rende golosa. Il rischio però è che si perda la classica croccantezza di un fritto perfetto

Limone sì o limone no? Il dilemma si ripete ogni volta che viene presentato in tavola un bel fritto croccante: molti non riescono a rinunciare alla nota acidula e fresca del limone, ma almeno altrettanti condannano questa usanza e disdegnano le fette di limone che decorano il piatto. Ormai sono sempre meno i ristoratori che le servono insieme al fritto, ma le portano al tavolo solo se richieste tanto per non essere considerati degli inguaribili nostalgici. Ma vi siete mai chiesti da dove deriva la predilezione umana per il binomio tra il gusto acido del limone e il cibo fritto nel grasso?

Limone sul fritto: buono, anzi buonissimo

Esiste una teoria per spiegare questa associazione, almeno riguardo alla frittura di pesce, e ha a che fare con la chimica. Il pesce, già poco dopo essere pescato, inizia a produrre sostanze altamente volatili chiamate ammine, responsabili del suo tipico odore. L’acidità del limone è in grado di legarsi a questi composti rendendoli più solubili e, di conseguenza, meno percepibili dall’olfatto. Questo spiegherebbe perché molte delle ricette a base di pesce prevedono ingredienti dalla componente acida come limone, pomodoro, vino o aceto, ingrediente principale delle ricette di carpione o scapece in tutte le loro varianti. Rimane da spiegare come mai il gusto acido viene reclamato anche da altri tipi di fritto e basta pensare alle patatine con ketchup e maionese per accorgersene. In questo caso le motivazioni sono culturali e hanno origini molto antiche.

Fa bene alla salute

Per circa due millenni l’unica medicina conosciuta è stata quella galenica che, a partire dall’antica Grecia fino all’illuminismo, non ha solo spiegato come si curavano le malattie, ma ha indicato anche come prevenirle con una alimentazione “equilibrata”, con un significato completamente diverso da quello che gli attribuiamo oggi. La teoria galenica si basava infatti sul bilanciamento dei quattro umori – caldo, freddo, umido e secco – che costituiscono gli elementi fondamentali di uomini, animali, vegetali, insomma di tutto ciò che ci circonda. Le malattie erano considerate un effetto dello squilibrio fisiologico, pertanto tutto ciò che veniva introdotto nell’organismo doveva essere attentamente valutato. Per secoli i medici si sono preoccupati che le singole portate, la composizione dei pasti e la dieta nel suo complesso fossero equilibrati e adatti all’organismo di chi li assumeva. Se oggi il vostro dietologo consiglia di limitare i cibi ricchi di grassi, gli zuccheri e di abbondare con le verdure, fino a qualche secolo fa vi avrebbe raccomandato di bere un vino bianco e leggero con l’arrosto, di lessare la carne della selvaggina e di accompagnare il melone con un cibo secco e salato. Sull’ultima indicazione in fondo ci troviamo ancora d’accordo quando mangiamo melone e prosciutto, un’associazione che è entrata a pieno titolo nelle nostre strutture del gusto.  Con il limone e il fritto è successa più o meno la stessa cosa.

La prima volta del limone sul fritto

Dal punto della medicina galenica, la natura del limone e del fritto sono contrapposte: i liquidi acidi erano considerati “freddi” e “umidi”, mentre i cibi esposti al calore diretto del fuoco o all’olio bollente tendevano a diventare “caldi” e “secchi”. Gli opposti, si sa, si annullano, per cui mescolare questi alimenti all’interno della stessa portata la rendeva perfettamente equilibrata. Probabilmente la prima associazione tra il limone e il fritto (di pesce) è contenuta in una fiaba orientale raccolta nelle Mille e una notte che ha per protagonista il califfo Harun al-Rashid, un personaggio storico realmente esistito che regnò tra il 786 e l’809, praticamente un contemporaneo di Carlo Magno. Nella novella il califfo si finge un pescivendolo per sorprendere un proprio dignitario che aveva organizzato una cena senza il suo permesso. Arrivato in cucina in incognito, ne approfitta per friggere personalmente il pesce e portarlo agli ospiti, non prima di avere colto appositamente un limone dal giardino per accompagnare il piatto. Il narratore non si sofferma sulla ricetta, ma sembra che il pesce fosse fritto semplicemente in olio, senza farina o pastella, una modalità che rimarrà la più utilizzata anche in occidente per diversi secoli. In questo caso, una spruzzata di limone o degli altri acidificanti usati all’epoca come l’arancia amara, l’aceto o l’agresto (ottenuto dal succo di uva acerba) non avrebbero compromesso la consistenza del fritto.

Con l’infarinatura nascono le perplessità

L’usanza di infarinare pesci di piccola taglia prima di friggerli inizia timidamente nel Quattrocento per poi diffondersi durante il Rinascimento ed è allora che nascono le prime avvertenze sull’uso del succo di limone. Leggiamo nel ricettario di Domenico Romoli datato 1560: «avvertiscasi di non coprire il pesce fritto di niuna sorte [di succo di limoni o melangole] quando sarà caldo, perché diventarebbe allesso; oltre che è cosa mortifera il mangiarne, come si dirà». Proprio come oggi, il fritto era immancabilmente servito circondato da fette di limone, ma il consiglio era di usare il succo con estrema parsimonia, altrimenti rischiava di diventare nientemeno che “mortifero”. Insomma, è passato quasi mezzo millennio, ma le perplessità sono rimaste identiche.

Il trionfo del fritto

Tra Cinquecento e Seicento si assiste a un’impennata di vivan- de fritte. L’infarinatura è ormai diventata un metodo comune a cui si aggiunge l’indoratura, ovvero il passaggio nell’uovo sbattuto. Al pesce si accostano anche diversi tagli di carne, so- prattutto di “quinto quarto” come il fegato, le animelle, il cervello e la lingua. La cucina francese è quella più audace e nel XVII secolo inizia a sperimentare soluzioni più creative per avvolgere i fritti, come per esempio la pastella dei bignè con cui vengono preparate le animelle. Anche in questi casi non mancano mai limoni o arance da spremere sulle vivande. Solo nel Settecento si affaccia una nuova strada, che noi conosciamo bene: accompagnare il fritto con salse dalla componente acida. Grazie anche alla messa a punto della ricetta della maionese da parte di Marie Antoine Carême agli inizi dell’Ottocento, la loro consistenza diventerà sempre più cremosa, salvaguardando la croccantezza dei fritti.

Una diatriba accesa

Sono passati i secoli, ma la discussione del limone sui fritti è ancora attuale e sembra difficile trovare il compromesso tra una consistenza supercroccante e la nostra amata spruzzatina agrumata. In realtà c’è chi – come Luca Iaccarino – ha scritto anatemi contro il limone sul pesce (e sul fritto): “perché copre i sapori delicati, perché cuoce le carni, perché ammoscia il croccante. E soprattutto perché ho sposato una ligure che tutte le volte che vede qualcuno farlo cita il famoso adagio: “chi sul pesce mette il limone o è di Cuneo o è un belinone". Non è però in linea uno chef del calibro di Gennaro Esposito: «Non andrei su posizioni estreme. Quando si frigge o si cuoce a temperature alte (frittura e griglia in primis), la caramellizzazione degli zuccheri dà sapori forti e spinti. Così il limone smorza un pochino quella forza a volte eccessiva. Penso ai gamberi, per esempio, o alla razza e al merluzzetto: pur essendo magri acquistano un gusto molto forte per la frittura. In una cotoletta alla milanese, in cui la frittura cel burro chiarificato può spingersi un po’ oltre, la goccina di limone ci sta bene. Ma sono la misura e il gusto personale la bussola che può orientare al meglio la scelta del limone si o no».

Soluzione dal passato?

Una possibile soluzione arriva però dal Medioevo e si chiama sommacco: la polvere estratta dal frutto acerbo della Rhus coriaria, una pianta diffusa in tutto il bacino Mediterraneo. Gli antichi ricettari ne suggeriscono l’uso come una valida alternativa al limone, ma nel corso del Cinquecento la sua presenza in cucina si è ridotta fino a scomparire. Nel Vicino Oriente è utilizzato ancora oggi in diverse ricette, mentre da noi è quasi sconosciuto, anche se ci sono giovani chef talentuosi che lo stanno riscoprendo. Il suo segreto è di essere una polvere, quindi perfetta per dare la giusta freschezza agrumata
senza intaccare la consistenza del fritto. Chissà, forse questo stratagemma venuto dal passato, potrebbe risolvere un dilemma culinario vecchio di mezzo millennio.

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